A volte un’immagine non nasce dal momento, ma da ciò che resta dopo.
Quest’opera è emersa dagli echi, da ciò che persiste quando tutto sembra concluso. Non è il rumore che mi interessa, ma il residuo: tracce che restano attaccate al corpo, frammenti che non si dissolvono, gesti che continuano a vibrare anche quando non si vedono più. Ciò che perdura, anche quando non può più essere nominato.

Durante la sua creazione sono apparse due figure: una bambina e un’anziana. Non sono definite con precisione, eppure la loro presenza è chiara. Non appartengono a un albero genealogico come struttura, ma come legame. L’anziana nutre. La bambina sostiene. Si abbracciano in un gesto che non è soltanto affetto, è una forma di dono. In quello scambio silenzioso ho sentito che stavano abbracciando anche me.

In Messico, il mistico non è estraneo. Vive negli altari, nei fiori, nei sussurri tramandati di generazione in generazione. Anche quest’opera viene da lì: da quel modo di guardare il mondo in cui l’invisibile non è meno reale. Dove il magico non è fantasia, ma presenza. Un modo di essere che non ha bisogno di spiegazioni, solo di essere sentito. Ciò che si eredita non è sempre detto a parole, ma si riconosce nel corpo, nello sguardo, nel gesto.

L’immagine sembra crescere e dissolversi allo stesso tempo. Le linee si ramificano come radici, come vene, come percorsi tracciati non dalla logica ma dalla memoria. Ogni tratto mi ha portato un senso di continuità, come se ciò che disegnavo non fosse soltanto mio, ma parte di qualcosa che scorre attraverso di me. Qualcosa che viene da prima e continua nel futuro.

Per me, il magico non è necessariamente ciò che brilla. È ciò che rimane. Ciò che si iscrive nel corpo, nella memoria, nel gesto. Ciò che si trasmette senza parole, di generazione in generazione. Come presenze silenziose che sono ancora lì, a sostenere, nutrire, vibrare.